Paolo Mereghetti e “Miracolo a Milano”

Una nostra intervista al grande critico cinematografico a settant’anni dalla prima milanese del film di De Sica e Zavattini. ()
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L’8 febbraio 1951 avvenne a Milano la prima proiezione assoluta del film “Miracolo a Milano” di Vittorio De Sica, con sceneggiatura di Cesare Zavattini dal suo romanzo “Totò il buono”. Gran parte della pellicola venne girata a Lambrate, nei prati che stanno tra la massicciata della ferrovia e la via Valvassori Peroni, dove venne realizzata la baraccopoli che ospitava i “barboni” protagonisti del film.
Per ricordare l’evento, abbiamo chiesto a Paolo Mereghetti, critico cinematografico tra i più accreditati e conoscitore assoluto della storia del cinema italiano, un suo contributo.

Qual è il tuo giudizio sul film?


Il mio giudizio non può essere che molto positivo. Anche a settant’anni di distanza il film, rivisto, continua a emozionare e a rilevare doti di inaspettata preveggenza. Se il personaggio di Totò conserva quel tocco di magica meraviglia che serve per trasportare il film sul terreno della fiaba (e dell’apologo morale), la descrizione dei barboni che abitano nel quartiere periferico ha sfumature e caratteri che ne fanno ancor oggi un campionario delle ingenuità e dei vizi umani, a cominciare dall’avido e rivendicativo Paolo Stoppa.
E l’utopia di un mondo dove buongiorno vuol dire davvero buongiorno sarà anche un po’ populista ma mi sembra che aiuti ancora a scaldare il cuore.

Come si colloca nella filmografia di Vittorio De Sica?

Quando uscì, nel 1951 (vincendo ex aequo con “La notte del piacere” di Sjöberg la Palma d’oro a Cannes), il film fu attaccato da destra e da sinistra: i primi avevano paura che la “fuga” finale a cavallo delle scope volesse portare i poveri verso mondo socialisti, i secondi che la poesia soffocasse la politica. In effetti nella carriera del De Sica neorealista, “Miracolo a Milano” ha una posizione un po’ anomala, lontano dall’impegno dei primi film del dopoguerra (“Sciuscià” e “Ladri di biciclette”) o dal pessimismo esistenziale del successivo “Umberto D.”. Ma anche ripensando a tutta la filmografia del regista, non mi viene in mente un titolo che possa avvicinarsi alla grazia di questa favola moderna.

Qual era il rapporto di collaborazione tra De Sica e Cesare Zavattini?

Con Zavattini, De Sica ha avuto una collaborazione duratura, iniziata con “Teresa Venerdì” (1941), proseguita con “4 passi fra le nuvole” e “I bambini ci guardano” (1942 e 1944, per molti due precursori del Neorealismo) e sfociata, dopo l’anomala esperienza di “La porta del cielo” (1945, un film girato per impedire di essere deportati dai nazifascisti nella Venezia della Repubblica di Salò) nei capolavori del dopoguerra, “Sciuscià” (1946), “Ladri di biciclette” (1948, dove però non va dimenticato il peso di Luigi Bartolini, autore del romanzo all’origine del film), “Miracolo a Milano” (1951, forse il più zavattiniano dei film della coppia, tratto dal romanzo “Totò il buono” dello stesso Zavattini), “Umberto D.” (1952) e “Stazione Termini” (1953). Poi la collaborazione continua, con esiti altalenanti, con “Il tetto” (1956), “La ciociara” (1960), “Il giudizio universale” (1961), l’episodio “La riffa” di “Boccaccio ‘70” (1962), “I sequestrati di Altona” (1962), “Il boom” (1963), due episodi di “Ieri oggi e domani” (1963), “Un mondo nuovo” (1966), “Caccia alla volpe” (1966), “Sette volte donna” (1967), “I girasoli” (1970), “Il giardino dei Finzi Contini” (1970), “Lo chiameremo Andrea” (1972) e “Una breve vacanza” (1973). Non proprio tutta la filmografia ma quasi, anche se dopo i capolavori del Neorealismo il suo contributo è stato più professionale che davvero autoriale.

Qual è, a tuo parere, la scena più emblematica del film?

Di scene emblematiche il film è pieno ma a me sono sempre piaciute la scoperta che fa Lolotte (Emma Gramatica) del bambino che nasce sotto il cavolo e la scena del funerale, forse perché girata per delle strade di Milano che riesco a riconoscere.


Grazie a Paolo Mereghetti per la sua lucida lettura di un film che continua a scaldare l’immaginario di una città che, malgrado tutto, non vuole dimenticare le sue storie.

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